Gazzetta n. 255 del 30 ottobre 2010 (vai al sommario)
AUTORITA' PER LA VIGILANZA SUI CONTRATTI PUBBLICI DI LAVORI, SERVIZI E FORNITURE
DETERMINAZIONE 20 ottobre 2010
Questioni interpretative concernenti la disciplina dell'articolo 34 del decreto legislativo n. 163/2006 relativa ai soggetti a cui possono essere affidati i contratti pubblici. (Determinazione n. 7).


Premessa.
La presente determinazione e' volta a chiarire alcuni dubbi interpretativi attinenti alla disciplina dettata dall'art. 34 del d.lgs. 163/2006 (nel seguito «Codice»), in particolare alla possibilita' di ammettere alle gare per l'aggiudicazione dei contratti pubblici soggetti giuridici diversi da quelli ricompresi nell'elenco di cui all'art. 34 del d.lgs. n. 163/2006, quali ad esempio le fondazioni, gli istituti di formazione o di ricerca, le Universita'.
La questione riveste carattere generale e verte sulla legittimita' di una interpretazione del citato art. 34 che consenta la partecipazione alle procedure competitive anche di ulteriori e diverse tipologie soggettive, indipendentemente dalla loro natura giuridica.
Tale problematica e' stata gia' affrontata dall'Autorita' in atti specifici, quali delibere e pareri di precontenzioso (si veda la deliberazione n. 119 del 2007, il parere n. 127 del 2008); appare pertanto opportuno fornire indicazioni applicative di carattere generale, anche alla luce della recente giurisprudenza comunitaria in materia (sentenza 23 dicembre 2009 C-305/08). 1. Interpretazione dell'art. 34 del Codice.
Il citato art. 34 del Codice ammette alle gare d'appalto di lavori, servizi e forniture gli imprenditori individuali, anche artigiani, le societa' commerciali, le societa' cooperative, i consorzi, nonche' i soggetti che abbiano stipulato il contratto GEIE, gli operatori economici stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi. La disposizione del Codice si limita, quindi, ad individuare un elenco di soggetti affidatari dei contratti pubblici, recependo pressoche' letteralmente la previsione contenuta nell'art. 10, comma 1, della previgente legge 11 febbraio 1994, n. 109 relativa ai soli appalti di lavori.
L'art. 3, comma 6, del Codice definisce il soggetto affidatario di contratti pubblici quale «operatore economico»: termine, questo, che include «l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o consorzio di essi» (comma 22 del medesimo articolo), affiancando dunque alla figura dell'imprenditore anche quelle del fornitore e del prestatore di servizi. Comune denominatore di tutte le figure contemplate dall'art. 34 e', senza dubbio, la nozione di impresa intesa come esercizio professionale di un'attivita' economica.
La nozione di «operatore economico» in ambito europeo e' molto ampia e tende ad abbracciare tutta la gamma dei soggetti che potenzialmente possono prender parte ad una pubblica gara: l'art. 1, comma 8 della direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, dopo aver definito gli appalti pubblici come contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o piu' operatori economici ed una o piu' amministrazioni aggiudicatrici, designa, con i termini «imprenditore» «fornitore» e «prestatore di servizi», una persona fisica o giuridica, o un ente pubblico, o un raggruppamento di tali persone e/o enti che «offra sul mercato», rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti e servizi; la stessa disposizione specifica, poi, che il termine «operatore economico» comprende l'imprenditore, il fornitore ed il prestatore di servizi ed e' utilizzato allo scopo dichiarato di semplificare il testo normativo.
In ambito italiano, la definizione comunitaria di «operatore economico» trova riscontro nell'art. 3 del Codice che prevede, al comma 22, che il termine di «operatore economico» comprende l'imprenditore, il fornitore ed il prestatore di servizi o un raggruppamento o un consorzio tra gli stessi, mentre, al comma 19, specifica che i termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica o giuridica o un ente senza personalita' giuridica, compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE), che offra gli mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi.
Quindi, da un primo esame comparativo, le disposizioni dei due ordinamenti giuridici sembrerebbero perfettamente allineate.
Tuttavia, il legislatore nazionale introduce nel Codice, riproponendo il contenuto dell'art. 10, comma 1, della legge n. 109/94, l'art. 34, rubricato «soggetti a cui possono essere affidati i contratti pubblici»; in esso e' previsto un elenco di soggetti ammessi a partecipare alle gare per l'affidamento di commesse pubbliche. Un primo problema, che l'articolo pone, e' relativo alla natura, tassativa o meno, dell'elenco contenuto; un secondo, ma strettamente connesso al primo, e' legato al significato attribuito al termine imprenditore espressamente utilizzato.
Se l'imprenditore cui fa riferimento l'art. 34 e' solo quello disciplinato dall'art. 2082 del codice civile (chi esercita professionalmente un'attivita' economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi), si comprende che si e' di fronte ad un concetto piu' ristretto rispetto a quello abbracciato dalla normativa comunitaria secondo la quale e' imprenditore la persona fisica o giuridica o l'ente pubblico o il raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato la realizzazione di lavori e/o opere.
Del resto, a riguardo, e' opportuno rammentare che, nel contesto della procedura di infrazione aperta nei confronti dell'Italia per alcune delle disposizioni contenute nel Codice (poi chiusa in seguito all'adozione del d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152 cosiddetto «terzo correttivo»), la Commissione europea ha evidenziato che le direttive in materia di appalti pubblici non consentono di restringere la possibilita' di partecipare alle gare ad alcune categorie di operatori, escludendone altre. Tale rilievo e', poi, sfociato nell'intervento additivo della lettera f-bis al capoverso dell'art. 34 del Codice, che permette la partecipazione alle gare degli «operatori economici, ai sensi dell'art. 3, comma 22, stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi».
La giurisprudenza e' stata chiamata piu' volte a pronunciarsi sull'evidenziata divergenza tra le citate disposizioni nazionali che, testualmente interpretate, circoscrivono la partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici alle sole societa' commerciali (escludendo societa' semplici, associazioni, enti pubblici, ecc..) e l'impostazione sostanziale ed oggettiva del diritto comunitario, estranea a queste distinzioni. Sulla questione, sono emerse posizioni non univoche. I dubbi erano diretti non tanto verso gli enti pubblici economici che hanno natura ed a volte anche struttura imprenditoriale, quanto sugli enti pubblici non economici a cui e' difficile attribuire il carattere dell'imprenditorialita' e la cui partecipazione alle gare e' suscettibile di alterare la par condicio, creando una distorsione dei meccanismi concorrenziali, atteso il sistema di contribuzione e vantaggi di cui l'ente pubblico gode.
A fianco di un orientamento restrittivo (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. I, 12 giugno 2002, n. 3411), ne e' emerso un altro che, partendo dalla considerazione per cui un'opzione pregiudizialmente ostile alla partecipazione alle gare di soggetti pubblici mal si concilierebbe con il principio che riconosce agli enti pubblici piena autonomia negoziale, - la circostanza di essere beneficiari di contribuzioni pubbliche non e' di per se' ostativa alla partecipazione a gare pubbliche, sempre che si tratti di contribuzioni conseguite nel rispetto della disciplina comunitaria di riferimento (ne e' prova il fatto che le imprese private beneficiarie di aiuti finanziari pubblici possono prender parte a gare pubbliche) - esclude un'incompatibilita' in astratto e ritiene che la questione vada affrontata in concreto, verificando caso per caso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4327; Cons. Stato sez. V1 16/6/2009 n. 3897) la compatibilita' delle finalita' istituzionali proprie dell'ente che intende prender parte alla selezione con l'attivita' oggetto della prestazione dedotta nell'appalto da affidare.
L'Autorita' ha avuto occasione di pronunciarsi sull'argomento con la deliberazione n. 119 del 18 aprile 2007; in essa, esaminando i soggetti che ai sensi dell'art. 34 del Codice possono partecipare ad una gara pubblica, notava che il comune denominatore degli stessi era rappresentato dall'esercizio professionale di un'attivita' economica. Cio' aveva indotto l'Autorita' a concludere nel senso che le Universita', non possedendo tale requisito, non potessero essere ammesse alle procedure per l'affidamento di contratti pubblici, a meno che le stesse non costituissero apposite societa', sulla base dell'autonomia loro riconosciuta dalla legge 9 maggio 1989, n. 168. Anche per gli Istituti di ricerca l'Autorita' riteneva necessario procedere ad una verifica caso per caso degli statuti dei singoli enti al fine di valutare gli scopi istituzionali che gli stessi erano chiamati a perseguire.
Piu' recentemente, l'Autorita', alla luce della giurisprudenza nazionale e comunitaria, e' tornata sulla questione, affrontando, in linea generale, con il parere n. 127 del 23 aprile 2008, il problema della possibilita' di partecipazione alle gare d'appalto di soggetti giuridici diversi da quelli indicati nell'elenco dell'art. 34 del Codice, quali, nel caso di specie, fondazioni, istituti di formazione o di ricerca. In detto parere, si e' ricordato che, per il diritto comunitario, la nozione di impresa comprende qualsiasi ente che esercita un'attivita' economica consistente nell'offerta di beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico di detta entita' e dalle sue modalita' di finanziamento (cfr. da ultimo, in tal senso, Corte di giustizia CE, sentenza 26 marzo 2009, causa C-113/07P, Selex Sistemi Integrati/ Commissione e Eurocontrol). Si tratta, quindi, di una nozione dai confini ampi, che prescindono da una particolare formula organizzativa e dalla necessita' di perseguire finalita' di lucro (cfr. sul punto le conclusioni dell'Avvocato generale Jacobs presentate il 1° dicembre 2005 nella causa C-5/05, decisa con sentenza della Corte di giustizia CE 23 novembre 2006, Joustra nonche' la sentenza della Corte di giustizia CE 29 novembre 2007, causa C-119/06, Commissione/Italia).
Per quanto concerne gli enti pubblici non economici, quali gli enti di ricerca CNR, FORMEZ, CENSIS e IFOA, l'Autorita' ha esaminato il rischio di alterazione della par conditio tra i partecipanti e il possibile effetto distorsivo della concorrenza, atteso il particolare regime di agevolazioni finanziarie di cui godono i predetti enti e la conseguente posizione di vantaggio rispetto ad altri soggetti che forniscono i medesimi servizi nell'esercizio dell'attivita' di impresa, dovendo sopportare integralmente i relativi costi.
In proposito, va sottolineato che la Corte di giustizia CE ha gia' avuto modo di precisare che gli enti pubblici che beneficiano di sovvenzioni erogate dallo Stato, che consentono loro di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli degli altri offerenti non sovvenzionati, sono espressamente autorizzati dalla direttiva a partecipare a procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici (sentenza 7 dicembre 2000, causa C-94/99, ARGE).
Alla luce delle considerazioni esposte, l'Autorita', nel citato parere n. 127/2008, ha concluso, che gli enti pubblici non economici possono partecipare a quelle gare che abbiano ad oggetto prestazioni corrispondenti ai loro fini istituzionali, con la conseguente necessita' di operare una verifica in concreto dello statuto al fine di valutare la conformita' delle prestazioni oggetto dell'appalto agli scopi istituzionali dell'ente, optando per un'interpretazione che non riconosce carattere tassativo all'art. 34 del Codice.
In tale contesto e' intervenuta la Corte di Giustizia che il 23 dicembre 2009 si e' pronunciata sulla causa C-305/08 relativa alla questione rimessale in via pregiudiziale dal Consiglio di Stato, con il parere n. 167/2008.
Nell'ordinanza di rimessione, il Consiglio di Stato, oltre a riportare le menzionate posizioni della giurisprudenza e dell'Autorita', evidenziava il rischio per la concorrenza nel mercato dei contratti pubblici derivante dalla partecipazione delle Universita' che godono di una posizione «di privilegio che gli garantirebbe una sicurezza economica attraverso finanziamenti pubblici costanti e prevedibili di cui gli altri operatori economici non possono beneficiare».
La Corte, pur riconoscendo che, in talune circostanze particolari, l'amministrazione aggiudicatrice ha l'obbligo, o quanto meno la facolta', di prendere in considerazione l'esistenza di aiuti non compatibili con il Trattato, al fine eventualmente di escludere gli offerenti che ne beneficiano, ha affermato che «le disposizioni della direttiva 2004/18, ed in particolare quelle di cui al suo art. 1, numeri 2, lettera a), e 8, primo e secondo comma, che si riferiscono alla nozione di "operatore economico", devono essere interpretate nel senso che consentono a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato, quali le universita' e gli istituti di ricerca nonche' i raggruppamenti costituiti da universita' e amministrazioni pubbliche, di partecipare ad un appalto pubblico di servizi».
Infatti, ribadendo quanto affermato in alcuni precedenti, la Corte ricorda che e' ammesso a presentare un'offerta o a candidarsi qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati in un bando di gara, si reputi idoneo a garantire l'esecuzione di detto appalto, in modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico e di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto occasionale, o, ancora, dal fatto di essere sovvenzionato tramite fondi pubblici o meno. L'effettiva capacita' di detto ente di soddisfare i requisiti posti dal bando di gara deve essere valutata durante una fase ulteriore della procedura, in applicazione dei criteri previsti agli articoli 44-52 della direttiva 2004/18 (cfr. sentenze 18 dicembre 2007, causa C-357/06, Frigerio Luigi & Co, 12 luglio 2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti, 7 dicembre 2000, causa C-94/99).
La Corte, poi, richiamando l'art. 4, n. l, della direttiva 2004/18/CE, precisa che gli Stati membri possono decidere liberamente se autorizzare o meno determinati soggetti, quali le universita' e gli istituti di ricerca, non aventi finalita' di lucro, ma volti principalmente alla didattica e alla ricerca, ad operare sul mercato in funzione della compatibilita' di tali attivita' con i fini istituzionali e statutari che sono chiamati a perseguire. Una volta concessa, pero', l'autorizzazione, poi, non si puo' escludere gli enti in commento dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Pertanto, alla luce dell'attuale disciplina legislativa, il giudice comunitario conclude che «la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa osta all'interpretazione di unanormativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale che vieti a soggetti che, come le universita' e gli istituti di ricerca, non perseguono un preminente scopo di lucro di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, benche' siffatti soggetti siano autorizzati dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell'appalto considerato.».
Alla stregua dell'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia con la sentenza in esame, non sembra potersi affermare, in via generale, l'esistenza di un divieto per gli operatori pubblici a partecipare alle procedure ad evidenza pubblica. In sostanza, la definizione comunitaria di impresa non discende da presupposti soggettivi, quali la pubblicita' dell'ente o l'assenza di lucro, ma da elementi puramente oggettivi quali l'offerta di beni e servizi da scambiare con altri soggetti, nell'ambito, quindi, di un'attivita' di impresa che puo' non essere l'attivita' principale dell'organizzazione.
Sebbene, infatti, la risposta al secondo quesito attribuisca agli Stati membri la facolta' di proibire a determinati soggetti di offrire alcuni servizi sul mercato, non sono rinvenibili, attualmente, nell'ordinamento del sistema universitario, norme di tale portata. Al contrario, la possibilita' per le Universita' di operare sul mercato sarebbe espressamente prevista dall'art. 7, comma 1, lett. c), della legge 168/1989, che include, tra le entrate degli atenei, anche i corrispettivi di contratti e convenzioni, nonche' dall'art. 66, del d.P.R. 382/1980, rubricato «Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonche' sperimentazione organizzativa e didattica» che prevede che le Universita' possano eseguire attivita' di ricerca e consulenza, stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati, con l'unico limite della compatibilita' delle suddette attivita' con lo svolgimento della funzione scientifica e didattica che per gli Atenei rimane prioritaria.
Resta ferma la necessita' di effettuare, caso per caso, un esame approfondito dello statuto di tali persone giuridiche al fine di valutare gli scopi istituzionali per cui sono state costituite. In sostanza, la stazione appaltante deve verificare se gli enti partecipanti alla gara possano statutariamente svolgere attivita' di impresa offrendo la fornitura di beni o la prestazione di servizi sul mercato, pur senza rivestire la forma societaria (cfr. Cons. Stato sez. VI 16/6/2009 n. 3897).
In altri termini, anche se non ricompresi nell'elenco di cui all'art. 34 del Codice, qualora i soggetti giuridici in questione annoverino, tra le attivita' statutariamente ammesse, quella di svolgere compiti, aventi rilevanza economica possono, limitatamente al settore di pertinenza, - e se in possesso dei requisiti richiesti dal singolo bando di gara - partecipare a procedure di evidenza pubblica per l'affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi compatibili con le rispettive attivita' istituzionali.
E' opportuno evidenziare, pero', che la Corte pone a fondamento della sentenza anche la considerazione che l'esclusione delle Universita' potrebbe portare a considerare «non contratti» gli accordi che comunque verrebbero conclusi tra tali soggetti e le stazioni appaltanti, eludendo l'applicazione delle direttive 17/2004/CE e 18/2004/CE.
Appare chiaro, allora, quanto la pronuncia della Corte abbia spostato il baricentro della questione, fugando ogni dubbio, sull'impossibilita' per le stazioni appaltanti di escludere a priori, dalla partecipazione alle gare, gli enti pubblici non economici, e le Universita' in particolare, solo perche' difettano del requisito dello scopo di lucro o di un'organizzazione stabile d'impresa, ma nel contempo escludendo che i contratti conclusi tra amministrazioni aggiudicatrici e organismi che non agiscono in base ad un preminente scopo di lucro possano non essere considerati «appalti pubblici» e, pertanto, venir aggiudicati senza il rispetto della normativa comunitaria e nazionale dettata in materia. 2. Compatibilita' con il diritto comunitario degli accordi con le amministrazioni aggiudicatrici.
La Corte di Giustizia ha ribadito, in piu' sentenze (cfr. ad es. sentenza Coditel Brabant; 13 novembre 2008, causa C-324/07), il principio secondo cui un'amministrazione pubblica puo' adempiere ai compiti ad essa attribuiti attraverso moduli organizzativi che non prevedono il ricorso al mercato esterno per procurarsi le prestazioni di cui necessita, avendo piena discrezionalita' nel decidere di far fronte alle proprie esigenze attraverso lo strumento della collaborazione con le altre autorita' pubbliche. A ben vedere, quella esposta e' la stessa ratio che e' alla base dell'esenzione dall'espletamento della gara nell'ipotesi di utilizzo dell'in house providing anche in questo caso l'amministrazione opta per una scelta contraria al processo di outsourcing, stabilendo di affidare l'attivita' a cui e' interessata ad un altro ente che solo formalmente e' distinto dalla propria organizzazione, ma su cui sostanzialmente essa esercita un controllo analogo a quello che espleterebbe nei confronti di un proprio servizio e che realizza con essa la parte piu' importante della sua attivita'.
Il giudice comunitario e' tornato sul punto in una recente pronuncia (sentenza del 9 giugno 2009, causa C-480/06) sancendo la legittimita' di un accordo stipulato tra quattro Landkreise tedeschi e la citta' di Amburgo, subordinandola, pero', al verificarsi di una serie di presupposti.
In tale contesto viene ribadito che se, da un lato, il diritto comunitario non impone alle autorita' pubbliche di ricorrere a particolari forme giuridiche per assicurare inl comune le loro funzioni di servizio pubblico, dall'altro, questo tipo di cooperazione non puo' «rimettere in questione l'obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri.».
Nel caso specifico, la Corte ha espresso un giudizio di compatibilita' dell'accordo con le norme del diritto comunitario perche' sussistevano le seguenti condizioni:
l'attuazione della cooperazione e' retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico;
viene salvaguardato il principio della parita' di trattamento degli interessati, in modo tale che nessuna impresa privata e' posta in situazione privilegiata rispetto agli altri concorrenti;
la collaborazione tra amministrazioni non e' una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme in materia di appalti pubblici;
gli unici movimenti finanziari ammessi tra gli enti pubblici cooperanti sono quelli corrispondenti al rimborso delle spese effettivamente sostenute;
tutte le strutture pubbliche coinvolte svolgono un ruolo attivo, anche se non necessariamente nella stessa misura; quindi sussiste un'effettiva condivisione di compiti e di responsabilita' ben diversa dalla situazione che si avrebbe in presenza di un contratto a titolo oneroso in cui solo una parte svolge la prestazione pattuita, mentre l'altra assume l'impegno della remunerazione;
l'accordo controverso istituisce una cooperazione tra gli enti locali finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli stessi che, nel caso specifico, e' costituita dallo smaltimento dei rifiuti.
Parallelamente, si ricorda, pero', che la Corte ha dichiarato non conforme al diritto comunitario escludere a priori dall'applicazione delle norme sugli appalti i rapporti stabiliti tra amministrazioni pubbliche, indipendentemente dalla loro natura. Ancora piu' esplicitamente, nella citata sentenza del 23 dicembre 2009, la Corte ha chiarito che la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici e' applicabile agli accordi a titolo oneroso conclusi tra un'amministrazione aggiudicatrice ed un'altra amministrazione aggiudicatrice, intendendo con tale espressione un ente che soddisfa una funzione di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale e che, quindi, non esercita a titolo principale un'attivita' lucrativa sul mercato.
Del resto, un'interpretazione della normativa comunitaria incline alla massima apertura delle procedure selettive per l'affidamento di commesse pubbliche a soggetti tradizionalmente esclusi, come le Universita', e' perfettamente in linea con l'intento di circoscrivere il ricorso all'affidamento diretto: si tratta di un «modus operandi» che prima della pronuncia menzionata poteva trovare una ualche giustificazione' nella considerazione secondo la quale, essendo al mondo della ricerca precluso all'origine l'accesso al mercato dei contratti pubblici, lo strumento dell'accordo convenzione-contratto permetteva alla stazione appaltante di assicurarsi la collaborazione sinergica con un polo di eccellenza, come il settore universitario, non altrimenti conseguibile. Essendo, pero', profondamente mutata l'interpretazione dell'art. 34 del Codice, la pratica descritta non ha piu' ragion d'essere.
La giurisprudenza comunitaria, pertanto, ritiene legittimo il ricorso a forme di cooperazione pubblico-pubblico attraverso cui piu' amministrazioni assumono impegni reciproci, realizzando congiuntamente le finalita' istituzionali affidate loro, purche' vengano rispettati i presupposti sopra specificati. Anche il Parlamento Europeo, richiamando gli insegnamenti della Corte di Giustizia, nella risoluzione del 18 maggio 2010, ha ribadito la legittimita' di forme di collaborazione pubblico-pubblico che «non rientrino nel campo d'applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, a condizione che siano soddisfatti tutti i seguenti criteri:
lo scopo del partenariato e' l'esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante a tutte le autorita' locali in questione,
il compito e' svolto esclusivamente dalle autorita' pubbliche in questione, cioe' senza la partecipazione di privati o imprese private,
l'attivita' in questione e' espletata essenzialmente per le autorita' pubbliche coinvolte.
Sul versante dell'ordinamento nazionale, la legittimita' dell'impiego dello strumento convenzionale e' assicurata dalla previsione contenuta nel primo comma dell'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui: «le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attivita' di interesse comune» (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. 2 febbraio 2010, n. 417 e n. 418 sull'interpretazione dell'art. 90, comma 1, lett. c del Codice).
Tuttavia, per evitare che la disposizione possa prestare il fianco ad interpretazioni che si risolvano in una elusione della normativa sugli appalti pubblici, si ritiene necessario precisare i limiti che il ricorso alla normativa in commento incontra:
1. l'accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l'obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalita' istituzionali degli enti coinvolti;
2. alla base dell'accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilita';
3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l'accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno;
4. il ricorso all'accordo non puo' interferire con il perseguimento dell'obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto; la collaborazione tra amministrazioni non puo' trasformarsi in una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme menzionate e gli atti che approvano l'accordo, nella motivazione, devono dar conto di quanto su esposto.
In riferimento al punto 1, si sottolinea il fatto che la collaborazione deve avere come finalita' la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti e che gli stessi hanno l'obbligo di perseguire come compito principale.
Strettamente correlato al ragionamento appena svolto e' quello relativo al significato da attribuire all'espressione «per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attivita' di interesse comune» di cui al primo comma dell'art. 15 della legge 241/1990, la cui formulazione, per quanto generica, sotto il profilo oggettivo pare circoscrivere, per le pubbliche amministrazioni, la possibilita' di stipulare accordi alle ipotesi in cui occorra disciplinare un'attivita' che risponde non solo all'interesse di entrambe le parti, ma che e' anche comune. In proposito si specifica che il citato art. 15 prefigura un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l'esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico, ossia in forma di «reciproca collaborazione» e nell'obiettivo comune di fornire servizi «indistintamente a favore della collettivita' e gratuitamente» (cfr. Cassi civ., 13 luglio 2006, n. 15893). Si comprende allora perche' l'art. 15 in commento non risulti in contrasto con la normativa a tutela della concorrenza: nel caso in esame le amministrazioni decidono di provvedere direttamente con propri mezzi allo svolgimento dell'attivita' ripartendosi i compiti, il che vale a dire, trattandosi di una collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono un proprio contributo.
Discorso diverso, invece, nel caso in cui un ente si procuri il bene di cui necessita per il conseguimento degli obiettivi assegnati a fronte del pagamento del rispettivo prezzo: in questa situazione, sia che ci si rivolga ad un privato, sia che ci si rivolga ad un soggetto pubblico, e' difficile sostenere l'applicabilita' dello schema della collaborazione, atteso che si e' di fronte ad uno scambio tra prestazioni corrispettive che risponde alla logica del contratto' e che percio' richiede, in assenza di altre circostanze esimenti, 1' espletamento di una gara pubblica.
Le argomentazioni riportate trovano riscontro in alcune sentenze del giudice amministrativo (cfr. TA.R Puglia, Lecce, sez. n. 1791 del 21 luglio 2010) secondo cui «difetta l'interesse comune nell'accordo interamministrativo quando un'amministrazione ha inteso acquisire da un'altra amministrazione un servizio di proprio esclusivo interesse verso corrispettivo.... .... La presenza di un corrispettivo e' dunque da considerarsi quale elemento sintomatico della qualificazione dell'accordo alla stregua di appalto pubblico, da assoggettare alla relativa disciplina secondo le prescrizioni del codice degli appalti.». Sulla base di quanto sopra considerato

IL CONSIGLIO

Ritiene che:
1. l'elenco riportato nell'art. 34 del decreto legislativo 163/2006 non e' da considerarsi esaustivo dei soggetti di cui e' ammessa la partecipazione alle gare indette per l'affidamento dei contratti pubblici;
2. gli accordi tra amministrazioni non possono essere stipulati in contrasto con la normativa comunitaria, in particolare non devono interferire con il perseguimento dell'obiettivo della libera circolazione dei servizi e dell'apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza, nel rispetto dei principi illustrati nella presente determinazione.

Il presidente: Brienza Il relatore: Calandra
 
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